GdL – Pensieri su… “Ritorno a Haifa • Umm Saad – Due storie palestinesi”

 

Poche pagine rispetto a quelle del precedente libro ma direi anche poche in generale: solo 109.

“Ritorno a Haifa” è un racconto che lascia con l’amaro in bocca: tutti hanno ragione, tutti hanno torno e niente si risolve, anzi, la situazione peggiora. Nemmeno un figlio ritrovato riesce a far riunire Israeliani e Palestinesi, facendoli vedere a vicenda per quello che sono: persone.

Una coppia di coniugi palestinesi ritrova il figlio perso vent’anni prima e adottato da una famiglia ebrea alla quale è stata assegnata la loro casa. Ma il figlio ora combatte per Israele. Il padre biologico comincia a sognare che il suo secondogenito si unisca presto ai fedayin, cosa che invece prima gli aveva vietato di fare.

Le madri hanno poche parole. Il giovane crede di essere stato abbandonato anche se non è stato così: i genitori lo hanno in qualche modo lasciato senza poter tornare a prenderlo, nella confusione, mentre dovevano lasciare per forza la città. Ma avrebbero dovuto cercare con tutte le loro forze di tornare, quei genitori, e il figlio li considera vigliacchi. 

Errori rinfacciati di padre in figlio, errori commessi da una “parte” e dall’altra, perché è così che si è parlato nel salotto della casa contesa, attraverso due barricate; in quella casa in cui si parlava arabo e poi, portati via i proprietari, la cultura ebraica aveva fatto il suo ingresso. E si parla in inglese come lingua “di mezzo” che però non riesce a far fare un passo “nel mezzo” a quelle persone così strette nelle loro posizioni. Tutti accusano. Nessuno ama.

“Umm Saad”. La madre di Saad, definita vecchia a soli quarant’anni. Giustifica suo figlio continuamente, qualsiasi cosa faccia. Lui doveva firmare un foglio in cui ammetteva che si sarebbe comportato bene, per poter uscire di prigione ma si è rifiutato. La madre all’inizio sperava che riuscissero a farlo uscire per poi vederlo scappare ma poi lo giustifica per non aver firmato, perché tanto anche il campo profughi è una prigione. In seguito lui se ne va senza avvertire e diventa un fedayin e la madre lo giustifica ancora, perché in precedenza le aveva accennato due o tre volte che sarebbe voluto partire.

Io non la vedo come una “madre coraggio”: è solo una persona che ha perso tutto, anzi, che non ha mai avuto niente: prima era povera e poi è finita in un campo profughi; schiacciata da un figlio che non la rispetta e da un marito che la tratta in modo brusco e se la prende con tutti, perfino con la propria ombra, e lei ovviamente giustifica anche lui: è colpa della povertà. E quand’è che il marito diventa affabile? Quando lui e la moglie vedono combattere in un’esercitazione in piazza il loro secondogenito, un ragazzino in divisa color cachi con un fucile in mano, entrambi assurdamente orgogliosi. Mah…

Abu Saad, il padre di Saad, si sente meglio vedendo i figli pronti a combattere. La guerra è paragonata alla rinascita di un ramoscello di vite che è stato piantato e vede spuntare la sua prima gemma. Di nuovo: mah!

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