GdL – Pensieri su… “La famiglia Karnowski”

Non ero presente al primo incontro di lettura dopo l’estate, a settembre, e la scelta, come vi ho detto, era tra due libri:

“La famiglia Karnowski” di Israel Joshua Singer e “Piccola enciclopedia delle ossessioni” di Francesco Recami.

Non conoscendo né i libri, né gli autori ho lasciato che scegliessero per me e qualche giorno dopo ho ricevuto “La famiglia Karnowski”! Però devo ammettere che anche “Piccola enciclopedia delle ossessioni” ha solleticato la mia curiosità, quindi è entrato di diritto nella mia lista di libri che vorrei leggere…

“La famiglia Karnowski”, Gli Adelphi 2013, odore leggero e antico, pagine sottili. Il primo capitolo scritto al passato remoto, il secondo al presente indicativo. Poi si alternano nei vari capitoli. Copertina morbida, non liscia, sembra di gomma, trattiene le dita che ci scivolano sopra. Bella l’immagine di copertina, una cartolina d’auguri per il Capodanno ebraico dei primi del Novecento in Germania. 

Pag. 45: “ebbe la vita facile”, si dice “ebbe vita facile”. 

La religione al centro, i protagonisti sono Ebrei osservanti, ma non tradizionalisti come quelli del libro “Una moglie a Gerusalemme”.

Anche in questo caso si parla dell’avidità degli Ebrei, e a pensarlo è l’insegnante di storia tedesca di Georg. Se ne parla anche in “Lo scrittore fantasma”, nel racconto scritto da Nathan Zucherman che aveva scandalizzato parenti e amici.

Pag. 72: “Per quanto si trovi nella più brutta viuzza di Berlino, vive in un mondo di castelli, cavalieri e amori sublimi”.

Pag. 109, e poi ripetuto molte volte:”occhi castani”, gli occhi sono marroni, i capelli castani.

Nel capitolo 14 si parla del “fronte occidentale”, che mi ha ricordato il libro “Niente di nuovo sul fronte occidentale”: un libro, crudo, diretto, triste e vero. Nello stesso capitolo si parla anche dell'”influenza spagnola”, e della cosiddetta “spagnola” raccontava anche la mia bisnonna, l’unica che ho conosciuto. Un mondo lontano quello narrato in questo libro ma non tanto quanto potremmo pensare.

Molto bello il capitolo 27, che riporta il sentire della gente dell’epoca, l’atmosfera che si respirava prima della Seconda Guerra Mondiale.

Poi l’America: una nuova vita per tutti e il destino si ribalta, in positivo o in negativo. 

L’ultima parte è quella dedicata a Jegor, gli ultimi capitoli in particolare. Il suo tormento interiore, essere ebreo e tedesco allo stesso tempo. E poi il finale. Jegor che sarebbe potuto diventare una spia per la Germania ma non è in grado di esserlo, perché non ha iniziativa e creatività, e allo stesso tempo rifiuta nel suo animo di esserlo. Jegor che scappa di casa e frequenta giovani tedeschi: con loro si sente uno di loro ma davanti agli ebrei sente di appartenere anche a loro, che in qualche modo lo riconoscono come ebreo. Jegor confuso, con la testa piena delle idee imparate in Germania su una razza ariana superiore alle altre, resta sempre a metà tra tedeschi ed ebrei. E alla fine finisce per uccidere il dottor Zerbe, un uomo mediocre che lo aveva illuso di poter tornare un Giorno in Germania e diventare ariano onorario, si spara, davanti casa, tornando dopo mesi passati da solo in un mondo a lui ostile. Suo padre, un grande chirurgo in patria, e sua madre, infermiera, cercheranno di salvarlo. Il finale resta aperto, incerto, imperscrutabile, come il destino di tutti quegli Ebrei fuggiti dalla Germania. Jegor si è macchiato di omicidio: sarà scoperto, sarà arrestato se dovesse sopravvivere? L’ultima frase lascia  comunque un senso di speranza, come se Jegor potesse salvarsi dopo quello sparo vicino al cuore, con la pistola del dottor Zerbe: “I primi raggi dell’alba trafiggevano la fitta nebbia, illuminando le finestre con la luce livida del sole nascente”.

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