Pensieri su… “Antropologia della cultura materiale”


Non sapevo cosa aspettarmi da un libro di antropologia della cultura materiale ma sono rimasta piacevolmente sorpresa. “Antropologia della cultura materiale” di Fabio Dei e Pietro Meloni (Carocci Editore – Studi Superiori, 2020) è una lettura che cambia il modo di vedere il consumo, intendo proprio il semplice andare a fare la spesa.

Al centro di questo libricino, piccolo ma denso nei contenuti, c’è la cultura materiale. Si va dagli oggetti da lavoro della cultura contadina, raccolti nei musei etnografici, agli oggetti ordinari della vita quotidiana, finiti nell’arte. Il testo prende in esame anche il consumo nelle sue diverse forme.


Per quanto riguarda la museografia etnografica, il testo fa riferimento a Cirese e dunque al secondo principio della museografia (un tipo di museo che serva non a vivere ma a pensare, dove un oggetto ne rappresenta l’intera categoria, che però risulta un’esperienza scientifica e intellettuale). Propone poi la visione di Clemente, allievo di Cirese, con riferimento al terzo principio della museografia (un museo di oggetti d’affezione, come quello fondato a Ozzano Taro da Ettore Guatelli).


Molto interessante la teoria di Mary Douglas, secondo la quale il consumo è razionale e la selezione dei beni è una scelta culturale, che si esprime in particolare attraverso il disgusto, l’ostilità verso ciò che consideriamo sgradevole o volgare.


Anche Pierre Bourdieu si esprime in questo senso, spiegando che ogni gusto è allo stesso tempo un disgusto verso ciò che consideriamo volgare. Bourdieu afferma anche che ognuno di noi possiede un capitale economico e un capitale culturale, che non sempre vanno di pari passo. Di origine modesta ma con un grande capitale culturale, Bourdieu disse ai figli: “Noi non abbiamo bisogno di avere un’auto costosa”. Il motivo era che loro possedevano un grande capitale culturale. Uno stereotipo dell’antropologo è proprio questo: non essere borghese. Anche se si dovrebbe avere il coraggio di uscire dagli stereotipi.


Molto interessante anche la teoria di Daniel Miller. Anche per Miller fare la spesa non è un atto fine a se stesso ma un atto di devozione verso qualcuno. Per quanto riguarda l’interno di una casa, Miller sosteneva che la cura delle cose equivaleva alla cura delle persone, e che la presenza di oggetti rispecchiava la quantità e l’intensità delle relazioni tra le persone. Dalla casa passa al mondo digitale, perché è da casa che con mettiamo su internet. Il successo di Facebook non è nel cambiamento ma nel conservatorismo, nella capacità di ricostruire rapporti sociali. Ed ecco l’antropologia della cultura digitale, che rimette in discussione la dicotomia tra materiale e immateriale. Smartphone, computer e iPad che ci fanno entrare in un mondo immateriale che fa parte della nostra vita.


Bruno Latour parla infatti di interoggettività, cioè di interazione sociale e cognitiva che coinvolge soggetti umani e oggetti. Non secondaria la nozione di dispositivo sociotecnico, un tipo di relazione comunicativa in cui gli oggetti tecnici plasmano in qualche modo e in parte costituiscono la razionalità dei soggetti. Un esempio sono proprio i social network.


Questi sono soltanto alcuni punti che mi hanno particolarmente colpita, ma ci sono molte altre idee e teorie che possono cambiare il nostro modo di vedere la società, ampliare la nostra visione del mondo. Un libro indubbiamente interessante, che apre la mente sulla nostra esistenza quotidiana, che non è affatto banale come potremmo essere portati a pensare.

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